Salari, occupazione, mobilità sociale: l'economia Usa è in salute? — L'Indro

2022-10-09 12:33:32 By : Ms. Lisa Zhang

Ad agosto, rivelano i dati raccolti e pubblicati dal Dipartimento del Lavoro, l’economia statunitense ha creato circa 201.000 posti di lavoro rispetto ai 147.000 del mese precedente. A settembre, i nuovi posti di lavoro hanno raggiunto le 134.000 unità. Complessivamente, l’aumento medio mensile di posti di lavoro negli Stati Uniti nei primi nove mesi del 2018  si attesta a quota 211.000, a fronte di un ben più contenuto 182.000 registrato nel 2017.

Il dato che l’amministrazione guidata da Donald Trump considera particolarmente incoraggiante riguarda il ruolo trainante svolto rispetto alla crescita di posti di lavoro dal settore manifatturiero, che a settembre ha accumulato oltre 18.000 assunzioni – edilizia e sanità hanno invece pesato per circa 20.000 posti ciascuna. Il governo, che recentemente ha portato a termine una radicale riconfigurazione del Nafta volta proprio a rilanciare la produzione interna, non ha mai fatto segreto di puntare a una progressiva reindustrializzazione del Paese per ridare vigore alla middle-class, vera e propria spina dorsale dell’economia statunitense che va costantemente depauperandosi a causa del deterioramento del contratto sociale fondato sul postulato smithiano della ricchezza delle nazioni, intesa come sistema economico concepito per far ricadere benefici su tutti gli strati della società. Un equilibrio che è piombato in una crisi profondissima in conseguenza dell’affermazione del modello imperniato sull’industria finanziaria impostosi negli Usa a partire dal ripudio degli accordi di Bretton Woods del 1971.

In un suo lavoro del 1993, Kevin Phillips, grande intellettuale che negli anni ’70 si riciclò come consigliere sotto l’amministrazione Nixon, ha scritto in proposito che «la finanza non può alimentare una vasta classe media, poiché solo un piccolo gruppo scelto di ciascuna popolazione nazionale – olandese, inglese o americana – può ripartirsi i profitti della Borsa e dell’intermediazione finanziaria. La supremazia nell’industria, nel trasporto e nel commercio, al contrario, fornisce una più ampia prosperità nazionale nella quale sono gli individui comuni a far funzionare le linee di produzione, le miniere, le fabbriche, a manovrare gli ingranaggi, le vele maestre e le reti. Quando questo stadio di sviluppo economico cede il passo a quello successivo, con le sue più nette divisioni derivanti dal capitale, dalle qualificazioni professionali e dall’istruzione, le società con ampi ceti medi perdono qualcosa di vitale e di unico. Proprio ciò che alcuni temono si stia nuovamente verificando negli Stati Uniti alla fine del XX Secolo».

Il fenomeno, in realtà, ha origini individuabili nel periodo caldo compreso tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, quando gli Usa furono investiti – grazie anche alla linea monetaria promossa dalla Federal Reserve di Paul Volcker – da un pesantissimo processo di trasferimento degli impianti produttivi verso i Paesi in grado di assicurare serbatoi di manodopera a basso costo, cambi depressi, scarse tutele lavorative e fiscalità ‘allegra’. Il fenomeno, che nella sua fase iniziale si manifestò sotto forma di subappalto da parte della grande distribuzione, si allargò rapidamente ai settori dell’elettronica, dell’automobile, ecc. assumendo dimensioni letteralmente colossali. La deregulation reaganiana non ebbe tuttavia il solo effetto di favorire la delocalizzazione degli impianti produttivi, ma anche di favorire la proliferazione di imprese non sindacalizzate fortemente inclini a finanziare la riduzione dei costi per i consumatori con l’abbassamento dei criteri di sicurezza e degli stipendi dei dipendenti.

Il risultato fu un netto peggioramento delle condizioni di lavoro, a cui l’International Brotherhood of Teamsters, l’United Auto Workers, l’Oil, Chemical and Atomic Workers, l’United Mine Workers, la Professional Air Traffic Controllers Organization e altre organizzazioni sindacali non riuscirono ad opporsi, impantanandosi nelle sabbie mobili del nuovo sistema di confronto e negoziazione triangolare (lavoro-sindacati-management) della concertazione. Sottoposti al ricatto della delocalizzazione degli impianti produttivi o del licenziamento in tronco da parte dei dirigenti d’azienda, i lavoratori impiegati nei settori delle manifattura furono costretti a rinunciare progressivamente agli alti salari e alle garanzie previdenziali relativamente buone di cui avevano beneficiato nei decenni precedenti.

Imboccando questo sentiero, gli Stati Uniti tracciarono la rotta che avrebbero progressivamente percorso tutti gli altri Paesi economicamente avanzati, attraversati da fenomeni di deindustrializzazione, terziarizzazione dell’economia e precarizzazione del lavoro. «Il lavoratore temporaneo – spiegava nel 2004 l’analista di Merrill Lynch Jose Rasco – è il lavoratore marginale, il primo ad essere licenziato. Se la domanda resta forte, le imprese possono assumere questi lavoratori a tempo indeterminato: e se avviene, avremo davvero una ripresa trainata dalla creazione di posti di lavoro e dalla generazione di ricchezza. Ma più probabilmente, la crescita di lavoratori temporanei è il segno che i datori di lavoro stanno cominciando ad applicare i principi della contabilità alle risorse umane. Le imprese, cioè, stanno forse tramutando il lavoro da costo fisso a costo variabile. Invece di arruolare lavoratori e pagargli un salario integrale con i benefici sociali, le aziende li tengono come lavoratori temporanei e flessibili; la forza-lavoro può così essere adattata secondo i capricci della domanda. Aziende che non dispongono di pricing power [ossia non dispongono più del potere di determinare i prezzi a cui vendere le proprie merci a causa della sovrabbondanza dell’offerta rispetto alla domanda], quando in più le materie prime rincarano, che cosa possono fare per aumentare i loro margini di profitto? La risposta è ovvia. Il modo più facile di accrescere la profittabilità è ridurre il maggior costo fisso: la manodopera».

Ciononostante, le notizie relative al calo del tasso di disoccupazione al 3,7%  e all’aumento dei salari, con un tasso di incremento della retribuzione oraria media che ad agosto è stato pari allo 0,4% rispetto al luglio precedente e pari al 2,9% su base annua (un livello mai così alto dal giugno 2009) sono state salutate dalla maggior parte degli ‘addetti ai lavori’ come un incontrovertibile segnale di salute dell’economia Usa, benché – spiega ‘Il Sole 24 Ore’ – tali «aumenti salariali sollevano incognite. L’attesa è che i salari possano tornare ad aumentare al ritmo annuale del 3% e oltre, ma finora quel traguardo si è dimostrato elusivo. In passato, agli inizi del primo decennio del secolo, simili bassi livelli di disoccupazione erano stati accompagnati da incrementi del salari superiori al 4 per cento. Globalizzazione, rivoluzioni tecnologiche, mismatch delle qualifiche, boom negli impieghi nei servizi, sono state ad oggi tutte ragioni citate tra gli ostacoli incontrasti dai compensi nel tenere il passo con l’espansione. Il ruolo delle qualifiche viene rivelato in particolare dalla differenza nella disoccupazione che affligge gli americani con diversi livelli di istruzione: tra i diplomati delle scuole superiori la disoccupazione sale al 5,5%, mentre tra laureati scende al 2%».

I grandi organi di informazione, dal canto loro, hanno peraltro riservato ben poca attenzione all’aumento del tasso di disoccupazione allargato (che ricomprende al suo interno i lavoratori marginali e i disoccupati ormai scoraggiati che non cercano più un lavoro) dal 7,4 al 7,5% su base mensile e al ristagno del tasso di partecipazione dei cittadini in età da lavoro alla crescita, fermo ormai da tempo al 62,7%. Si tratta di uno dei livelli più bassi dalla fine degli anni ’70.

Va inoltre ricordato che, secondo quanto documentato da uno studio condotto nel 2017 dal docente di economia dell’Università di Stanford Raj Chetty, se il 90% dei cittadini statunitensi venuti al mondo negli anni ’40 riusciva a guadagnare più dei propri genitori, la percentuale di coloro che sono nati negli anni ’80 e arrivano a percepire un salario superiore rispetto ai propri padri e madri è sceso a un misero 50%. Il sociologo dell’Università di New York Michael Hout ha approfondito il tema mettendo in luce come le possibilità di affermazione personale stiano costantemente riducendosi, conformemente a una tendenza che vede i figli ‘ereditare‘ in sempre più casi la condizione più o meno disagiata dei propri genitori. In altre parole, il cosiddetto ‘ascensore sociale‘funziona sempre meno inchiodando gli Usa a una sorta di ‘stagnazione intergenerazionale‘. Riuscirà l’amministrazione Trump a porre rimedio a questa situazione?

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