Mini auto, maxi gusto: quando le keicar si fecero sportive - alVolante.it

2022-10-08 18:00:40 By : Mr. Jack Dai

UN IMPORTANTE RUOLO SOCIALE - Più che automobili sembrano giocattoli, modellini in scala, caricature. Solo che hanno un motore vero, si possono guidare e sanno come far divertire. Dalle nostre parti sono una specie di unicorno: alcuni ne hanno sentito parlare, ma quasi nessuno ne ha mai vista una. In Giappone, invece, le keicar sono un simbolo e un orgoglio nazionale. Dopo la Seconda guerra mondiale, queste automobili in miniatura - che per precise disposizioni del governo dovevano montare motori motociclistici con una cilindrata massima di 150 cc e costare il meno possibile - hanno in sostanza svolto il ruolo della “nostra” Fiat 500. Contribuendo quindi a ricostruire un intero paese, facendone ripartire l’economia e dando un’automobile a quasi tutti i suoi abitanti, che prima si spostavano a piedi o, nel migliore dei casi, in sella a una bici o a una motoretta. 

DA NECESSITÀ A VIRTÙ - Ma il colpo d’ala alla crescita di quello che si affermerà come un vero fenomeno sociale arriva solo alla fine degli anni ’50. Il merito è della Subaru 360, la prima keicar a sfondare il tetto dei 150 cc, con una velocità massima di 80 km/h e una miriade di esemplari prodotti con le più svariate tipologie di carrozzeria, addirittura pick-up e furgoncino. Negli anni ’80, però, l’economia del Giappone comincia a galoppare e l’industria dell’auto si evolve con passi da gigante. Anche il mondo delle keicar in qualche modo viene pervaso da questa euforia e nel decennio successivo si assiste all’arrivo di tre auto sportive in formato ridotto. Ecco le protagoniste di una stagione nuova che, seppur breve, è riuscita a lasciare il segno nella storia dell’auto.

Prodotta tra il 1991 e il 1996, la Honda Beat è la prima keicar “moderna” ed è stata l’ultima vettura della casa giapponese a essere approvata dal fondatore Soichiro Honda, che morì meno di tre mesi dopo la presentazione ufficiale del modello. Disegnata dal centro stile Honda partendo da un concept sviluppato dalla Pininfarina, lunga 330 cm come tutte le auto di questa categoria, aveva il motore motore centrale, un piccolo 3 cilindri aspirato di 656 cc che erogava 64 CV a 8.100 giri (ovvero la potenza massima all’epoca stabilita per questo genere di vetture da un gentlemen's agreement tra i costruttori giapponesi), e la trazione posteriore.

Sono una novità assoluta anche le barre antintrusione nelle portiere e l’airbag per il guidatore, il cui sedile è più largo di 2,5 cm rispetto a quello del passeggero. Ma la vera chicca è nell’impianto di alimentazione del motore: denominato MTREC (Multi-throttle response engine control), deriva da quello impiegato per il motore Honda a 12 cilindri con cui sono equipaggiate le monoposto di Formula 1 del team McLaren. Con una valvola a farfalla per ciascuno dei tre cilindri, il sistema era in grado di variare il rapporto aria/benzina in ognuno di essi in base al regime di rotazione del propulsore, garantendo una risposta più pronta dell’acceleratore.

Guardatela bene e provate a dire che non sembra una Mazda MX-5 in miniatura. La somiglianza della Suzuki Cappuccino con la spider più venduta al mondo è netta, sia nello stile sia nel layout meccanico, con il motore collocato in senso longitudinale dietro l’asse anteriore e la trazione sulle ruote posteriori (a richiesta erano disponibili anche un differenziale autobloccante Torsen e l’ABS). Presentata nel 1991 (sei mesi dopo il lancio della Honda Beat) e rimasta sulla breccia fino al 1998, la Cappuccino è la prima keicar con sospensioni a doppio braccio oscillante (schema tipico delle vetture super sportive).

Sovralimentato mediante un turbocompressore, il suo motore a 3 cilindri con testata a 12 valvole ha una cilindrata di 657 cc e sviluppa una potenza di 64 CV (ovvero il massimo consentito dal sopracitato “patto” non scritto tra i costruttori giapponesi), inviata alle ruote posteriori. In realtà, però, pare fossero molti di più (qualcuno dice circa 130 CV). Anche perché, con la stessa (presunta) potenza, nello stacco da 0 a 100 km/h la Cappuccino spuntava un tempo di cinque secondi inferiore rispetto alla Honda Beat.

Alla fine degli anni ’80 la Mazda decide di diversificare la propria produzione automobilistica attraverso cinque brand. La divisione Autoazam, in particolare, si sarebbe occupata dello sviluppo di vetture progettate da altri marchi e di keicar. In quello stesso periodo la Suzuki sta portando avanti il progetto di una mini-sportiva a motore centrale e trazione posteriore: intenzionata a fare il suo ingresso nel settore, la Mazda sprona la casa di Hamamatsu a proseguire lo studio, garantendoli il supporto del team che aveva appena finito di lavorare alla MX-5.

Ne viene fuori la Autoazam AZ-1, una keicar che sa di supercar da qualsiasi angolo la si guardi: le porte si aprono ad ali di gabbiano come sulla Mercedes 300 SL; l’alettone posteriore ricorda quello della Ferrari F40; i finestrini divisi in due elementi sono un omaggio alla Lamborghini Countach; i fanalini tondi sono ispirati a quelli della McLaren F1; le prese d’aria lamellari sui fianchi sono una citazione a un altro bolide del Cavallino, la Testarossa; il muso, infine, riporta immediatamente alla mente la Ford RS200, coi suoi fari circolari e la grande apertura sul cofano. Nonostante un look accattivante e un motore molto potente (lo stesso della Cappuccino), l’auto sbarcò sul mercato un po’ fuori tempo massimo e, con la moda delle keicar sportive ormai quasi esaurita, non riscosse il successo sperato. Appena 4.392 gli esemplari prodotti tra il 1992 e il 1994, ovvero un sesto rispetto alle rivali Suzuki e Honda.

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