Fabrizio, dagli ospedali ai terremoti: storia di un volontario che non si arrendeva mai (neanche al tumore) - CorriereFiorentino.it

2022-10-10 00:39:07 By : Ms. Anna luo

Fino all’ultimo ha continuato a lavorare, anche se il suo corpo non lo assecondava più. In ufficio non riusciva a salire le scale ma lui non si abbatteva: prendeva l’ascensore. Spesso tossiva, faticava a respirare, ma continuava a salutare i colleghi, quasi come se nulla fosse. Se qualcuno gli domandava come stava, lui rispondeva tenace: «Tutto bene». Purtroppo però, Fabrizio Romeo - 29 anni, dipendente della Fratellanza popolare di San Donnino - non stava bene. Da quando aveva 22 anni, combatteva con un tumore. Ma guai a dirlo in giro. Gli amici non dovevano sapere. Non perché la malattia fosse tabù, ma perché lui non voleva essere compatito. Non voleva essere aiutato. Anche nelle missioni speciali, guai se qualcuno si avvicinava a lui per tendergli la mano. Ad Amatrice, tra fango e disperazione, si fermò per qualche minuto per tirare il fiato. I colleghi lo videro, lui disse che andava tutto bene.

E ripartì, senza sosta. E poi il Covid, per lui un doppio rischio. I colleghi gli avevano detto di smettere di lavorare, lui disse di no. E continuava a trasportare i malati da un ospedale all’altro, bardato (e sudato) dalla testa ai piedi. La mascherina, la visiera. Respirava male perché la malattia gli stava danneggiando le vie respiratorie. Si fermava per riprendere fiato, un paio di respiri senza mascherina e di nuovo in ambulanza. Lavorava anche sotto chemioterapia. Negli ultimi giorni aveva contratto una forte polmonite. Eppure andava in ufficio. Stava nella sua stanza, davanti al computer, ma sbraitava per uscire, per fare qualcosa che lo tenesse in movimento . E allora saliva al magazzino sanitario e metteva a posto le divise dei volontari. E quando sentiva il bisogno di riposarsi, invece di tornare a casa, si sdraiava per dieci minuti nei letti dove i volontari fanno la notte. Poi ripartiva. «Devo fare qualcosa, devo rendermi utile» diceva sempre.

Non voleva avere rimpianti, sentiva di non stare bene e voleva aiutare gli altri perché sapeva che attorno a lui c’era un mondo di sofferenza. Lui tentava di arginarla, ogni giorno, da quando aveva 14 anni, quando entrò come volontario alla Fratellanza popolare. Studiare non gli piaceva, aveva lasciato l’istituto professionale Leonardo da Vinci. I colleghi erano diventati la sua famiglia. Se provavano a compatirlo, lui s’innervosiva . Ha fatto così fino all’ultimo, anche dal suo letto d’ospedale, in quei messaggi che restano nel cuore degli amici: «Lieve peggioramento, non mollo». Si spazientiva anche quanto le infermiere lo aiutavano a mettersi il pigiama. Alla zia Francesca, poche ore prima di andarsene, ha scritto un messaggio in cui le chiedeva di controllare la sua auto perché nei giorni successivi sarebbe dovuto partire per Brescia, alla fiera nazionale per la gestione delle emergenze. A quella fiera non ci è mai andato.

Fabrizio si è arreso, lo scorso 5 settembre alle 1.05 di notte . Ma fino alla fine ha combattuto per se stesso e per i più fragili. Sfollati, terremotati, alluvionati, malati. Quella volta ad Amatrice, raccontano gli amici, con un sacco di patate da venti chili in mezzo ai campi pieni di melma. «Doveva portarlo a una famiglia di terremotati» dice Andrea Filippini, grande amico prima che responsabile della Fratellanza popolare di San Donnino, un fratello maggiore per Fabrizio. Come del resto gli altri colleghi e amici: Lucia, Sofia, Giulia, Francesca, Yari, Johnny, Niccolò, Luisa. Adesso lo piangono, si chiedono perché un ragazzo così giovane debba lasciare la vita così presto. E ricordano le sue missioni.

Non solo Amatrice: l’alluvione di Livorno, Genova, Aulla, Albinia . «Andavamo insieme per fiumi e torrenti con l’asticella per misurare il livello dell’acqua» racconta Andrea. In vacanza non ci andava. O meglio, andava dove c’erano missioni di volontariato: Isola d’Elba, Sardegna, si rendeva utile nei servizi sociali, nei trasporti sanitari. La sera usciva, ma tutto il giorno aiutava chi aveva bisogno. Una missione di vita, la dedizione ostinata, l’urgenza di vivere, per non lasciare niente di perso. Sceglieva di essere se stesso, nonostante tutto, al fianco degli altri. Un messaggio universale. Quando la sera usciva, era sempre al bar accanto alla Fratellanza.

Convinceva gli amici a diventare volontari. Era testardo e polemico, ma per migliorare quello che non funzionava: «Se vedeva un foglio fuori posto in ufficio, si stizziva» racconta ancora Andrea con le lacrime agli occhi. Fabrizio aveva un sogno: entrare in polizia. Quel sogno nacque da piccolo, quando giocava con le macchinine con il lampeggiante. La sirena lo faceva impazzire. Da adolescente, quando vedeva un’auto della polizia, cercava di avvicinarsi per vedere che modello fosse. Sentiva forte il senso dello Stato. Aveva tentato concorsi per diventare poliziotto, non erano andati a buon fine. E allora si portava nella sua auto il lampeggiante delle ambulanze, lo teneva nel sedile accanto a lui, spento, e faceva finta di essere un agente. Appassionato di motosega, aveva fatto un corso per imparare ad utilizzarla, tagliava legna quando poteva. Faceva il volontario nell’antincendio alla Pubblica assistenza di Signa. Non si fermava mai. Fabrizio lascia i genitori e una sorella, e centinaia di amici. Erano tutti al funerale, affollatissimo. Sopra il feretro, l’elmetto della Fratellanza popolare, dove adesso una vettura sarà intitolata a lui.

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